L’inarrestabile nostalgia di casa: una nuova tendenza tra gli expat italiani.

Come le rondini: Sindrome da expat da ritorno.
La Brexit, con le difficoltà che ha portato nel continuare a vivere nel Regno Unito e il covid, che ha impedito per molti mesi di tornare in vacanza nel proprio paese di origine e di ricevere delle visite da parenti e amici (e continua in molti casi a impedirlo), sono stati due fenomeni sociali che hanno contribuito ad attivare il ritorno o l’idea di ritorno degli expat nel proprio paese d’origine.
Il moto che ha spinto alla fuga si è trasformato in nostalgia e in desiderio sempre più forte di tornare. Come fare a capire se si tratta di un momento di crisi passeggero o di desiderio reale di cambiamento?
Il rischio è l’idealizzazione del ritorno a casa, mossi dalla nostalgia. Un focus fondamentale è che cosa si lascia e che cosa si trova.

Francesca, e il ritorno a Milano
Francesca 44 anni, 15 anni fuori, tra Hong Kong prima e Londra dopo.
«Dopo il covid – le parole di Francesca – avevo voglia di casa, ho avuto una figlia da giovane e adesso che è cresciuta, io e mio marito entrambi milanesi, abbiamo deciso di tornare e di farle iniziare il liceo a Milano. Dopo il primo momento di entusiasmo, ho visto tutte le fatiche della riorganizzazione in un posto nuovo, perché si tratta di un vero e proprio riambientamento e la burocrazia italiana aggiunge una notevole fatica. Anche a livello emotivo si pensa di tornare a come eravamo prima, ma le cose sono cambiate. Gli amici che erano sempre disponibili, visto che tornavamo una volta ogni tanto, hanno la loro vita, a livello di identità ero quella che viveva all’estero ed ero la expat nel paese in cui vivevo, ora chi sono?».
«I genitori – continua – sono invecchiati e le vite degli altri molto organizzate, lontane dalla mia in questo momento. La nostra casa che era il fondamentale punto di riferimento quando tornavamo mi sembra ora troppo piccola e per ora io non ho ancora trovato lavoro, per fortuna mio marito è entusiasta del suo. Non so come mi sento, lo valuterò tra un po’ e chissà, magari per l’università di nostra figlia coglieremo l’occasione per partire di nuovo. Ammesso che ci voglia ancora con lei».

Expat, i requisiti fondamentali per rientrare dall’estero
A livello emotivo può essere un sollievo tornare, ma bisogna anche fare i conti con la propria identità.
Requisiti fondamentali come per la partenza anche per il ritorno sono trovare una casa accogliente (possibilmente una diversa da quella di prima) e un nuovo lavoro che ci entusiasmi.
I rischi sono quello di voler ripartire, e l’ansia di essere in un posto definitivo, forse ci si deve fare i conti anche a seconda delle prospettive di movimento che darà l’evoluzione della pandemia.
Insomma, in ogni caso è importante tornare con un buon progetto alternativo. La mancanza della famiglia e degli amici non può bastare. Cambia comunque la prospettiva a seconda di che vita si abbandona e di che vita si trova.

Giulia, rientrata da Tokyo
Giulia 35 anni, 4 anni a Tokyo.
«Non è stata proprio una scelta quella di andare là – il racconto di Giulia – ero andata per seguire il mio compagno appena conosciuto, avevo avuto una precedente storia sentimentale alle spalle finita male e mi sono lanciata in una nuova avventura. Dopo il primo momento di entusiasmo per il posto nuovo, mi sono accorta che i ritmi lavorativi erano intensissimi – e nonostante la sicurezza economica non ero per niente abituata – e che anche io e il mio compagno eravamo molto diversi».
«Dopo poco – prosegue – sono stata investita dalla pandemia ed era difficile andare via, ma soprattutto ritornare se si partiva e quindi mi sono trascinata un po’ in questa situazione di malessere, anche se la percezione di avere uno sconosciuto in casa era sempre più evidente. Adesso sono tornata e mi sento scappata da una situazione di prigionia, non so quanto c’entri il Giappone o la relazione. Mi sembra tutto bellissimo nonostante le restrizioni che là tra l’altro erano molto meno. Devo trovare ancora un equilibrio».

Ogni caso è a sé, è importante fare la scelta che reputiamo migliore per noi, tenendo conto che può essere reversibile e seguire l’onda, la vita scorre e va avanti, solo il tempo ci farà vedere se si è rivelata giusta.

Le nuove generazioni (e non solo) hanno fame d’amore

Anoressia e non solo, parliamo di disturbi alimentari.
Quando ero bambina i disturbi alimentari erano quasi delle malattie rare. Se ne sapeva poco. Mio padre, farmacologo ed endocrinologo, aveva fatto degli studi sugli aspetti neuroendocrinologici dell’anoressia. Era stato uno dei primi. Era il 1981. Non c’erano terapie specifiche. Si andava dallo psicologo, generalmente di impostazione analitica o sistemica.

Famosa la teoria della psichiatra Palazzoli Selvini che attribuiva alla madre la colpa di tutto. Negli anni successivi si parlava sempre di più della necessità di creare centri multidisciplinari, modelli americani in cui tutto potesse funzionare, quasi con l’aspettativa magica che l’unione di più esperti potesse portare alla risoluzione sicura di un problema così complesso.
Bulimia, binge eating, ortoressia e tanti altri
Gli anni sono passati e ora ci sono diversi centri multidisciplinari. Non voglio scrivere di quanto e come funzionino i centri, né dei disturbi alimentari che nel frattempo sono diventati più numerosi, bulimia, binge eating, ortoressia e tanti altri, ma delle persone che ci sono dietro.
I pazienti che vedo spesso vengono dopo vari tentativi di cura, non solo da parte di psicologi di ogni genere e tipo, ma anche da psichiatri, internisti, nutrizionisti, manuali fai da te, terapie comportamentali, terapie analitiche, psicoterapie che non si sa cosa facessero. Quasi tutti sognano la bacchetta magica che li liberi dallo stimolo della fame.
Sempre di più arrivano pazienti con disturbi cronicizzati, lunghe terapie in cui non è stata neanche nominata la parola vomito oppure percorsi in cui si parla solo del cibo come fosse qualcosa di distaccato dalla persona. Arrivano con diagnosi preconfezionate, incartate con il cellophane, a cui è difficile avvicinarsi empatizzando, con la fatica del raccontarsi sempre a un terzo, come se non si sapesse chi si è, ma solo come ci hanno descritti.
È una fame d’amore
Si cercano dei modelli nel tentativo di semplificare, di avere un linguaggio condiviso, ma è un paradosso perché si tratta di personalità estremamente complesse. Sempre più si cercano ricette per curare i disturbi, ma la fame o “non” fame è una fame d’amore.
Solo riparando quella ferita si può guarire. Perché se ti insegnano a mangiare tutto quello che hai nel vassoio, ma dentro il dolore lentamente ti frantuma, quel sintomo si trasformerà in un altro dolore e poi magari ne dovrai mangiare quattro di quei vassoi per non sentirlo più.
Cos’è il disturbo alimentare?
Spesso vittime di, abusi, traumi che non necessariamente sono violenze manifeste, ma possono essere anni di maltrattamenti familiari consistenti nel calpestare ripetutamente la sensibilità molto spiccata dei soggetti in questione. Il disturbo alimentare è la esplicitazione di una vita di sofferenza del non essersi sentiti amati, del non darsi un valore, del sentirsi inferiori nella propria differenza.
È la relazione terapeutica con i suoi contenuti che aiuta a passare oltre. Un rapporto umano, non una tecnica precostituita. Una persona che ti restituisca la fiducia di cui avresti avuto bisogno nei primi anni di vita, quella fiducia che ci permette di sentirci e di esistere.

Anche il Grinch a Natale va in seduta

Natale è da sempre tempo di bilanci famigliari, difficile per chi non ha o non sente degli affetti sicuri.
Dal lockdown l’impossibilità di vedere i genitori e i parenti ha fatto trovare in alcuni delle modalità migliori per vederli ogni tanto, in maniera più autentica e più affettuosa. L’obbligo di visita ai famigliari è ciò che di meno spontaneo può esserci nelle relazioni affettive, a partire dai figli dei genitori separati e anche il festeggiamento dovrebbe corrispondere a un reale desiderio di farlo.

Certo, è giusto avere anche delle convenzioni sociali, delle regole di comportamento nelle relazioni, ma non sarebbe altrettanto consono rinegoziare ogni anno il proprio modo di festeggiare il Natale? L’amore per il Natale dipende anche da che bambini si è stati e dai ricordi famigliari. Riporto a questo proposito uno stralcio di una seduta prenatalizia.

 

Il Grinch che odia il Natale
«I miei ricordi del giorno di Natale sono dei grandi litigi tra i miei genitori ai quali io assistevo avvilita, in silenzio. Non sopportavano i reciproci parenti e, anche se si era già deciso da chi andare, il conflitto andava avanti per giorni. Diciamo che non era nuova quell’atmosfera in casa, anche nel restante periodo dell’anno. Mio padre scoppiava di rabbia spesso per motivi futili, forse per i suoi traumi familiari, come avrei scoperto nella mia precedente analisi, ma a 7 anni non lo potevo sapere, avevo paura e basta».

«Mia madre, probabilmente per il suo passato di povertà, iniziava a infiocchettare la casa a fine novembre, comprava ogni anno delle nuove decorazioni e c’erano pacchetti e pacchettini per tutti, preparati accuratamente con fiocchi e carte di ogni colore, troppi. Io, a parte un anno la bicicletta a cui tenevo, non amavo particolarmente ricevere regali, quasi mi infastidivano, era inscatolare e nascondere in un bel pacchetto quell’inferno di urla e di silenzio di quella casa».

…Odiare il Natale a New York

«E adesso mi definisco, ridendo, il “Grinch”, letteralmente Odio il Natale. Quando inizio a vedere tutte le decorazioni e qui a New York è un delirio da questo punto di vista, mi viene il mal umore e il culmine lo raggiungo quando sono costretta a fare l’albero, visto che Alex, il figlio del mio compagno, viene sempre qualche giorno a Natale da noi. Appena finisco di decorarlo il mio umore crolla a picco, non vedo l’ora di disfarlo e vorrei che una teleferica mi traghettasse direttamente al 7 gennaio, perché anche la Befana non la sopporto, se mi capita di essere in Italia».

«Comunque ogni luogo con decorazioni natalizie è per me insopportabile, rimpiango gli anni di singletudine quando andavo a fare il Natale al caldo, anche se stavo male lo stesso perché mi sentivo sola come un cane… Ma la cosa in assoluto più difficile per me è fare Natale per un bambino, fare i regali, fare finta di essere contenta. Forse è per questo che non ho avuto figli, sì sarà stato anche il caso, ma l’idea che qualcuno potesse passare quello che ho passato io mi sembrava inaccettabile. E così anche quest’anno farò buon viso a cattivo gioco, almeno fino a quando Alex non sarà adolescente, non manca molto e allora spero che non crederà più in questo dannato Babbo Natale…».