Emozioni e cibo

Sempre più persone utilizzano il cibo in maniera consolatoria. Hanno delle emozioni che non riescono a interpretare e/o affrontare e le traducono nella risposta automatica di ingestione di cibo. Oscillano di peso e sono ossessionate dal cibo, spesso evitano le situazioni sociali per vergogna o paura di sgarrare. Il Binge Eating comporta la perdita di controllo sull’alimentazione senza condotte compensatorie (digiuno, vomito, esercizio fisico, assunzione di lassativi).
Il lockdown ha aumentato l’alimentazione compulsiva per l’assenza di stimoli e per lo stare in casa e doversi procurare il cibo, con l’idea di essere al sicuro dal pericolo esterno, accentuando istinti primitivi come la fame.
Trovo tristi le vignette sull’aumento di peso perché penso ai drammi che ci possono essere dietro e la casa ne è sempre il teatro.
Le persone con il Binge Eating non odiano il cibo, ma ne abusano. Mangiano quando sono tristi, ma anche per festeggiare. Riempiono il vuoto emotivo con il cibo in mancanza del calore di un abbraccio, spesso non avvenuto in tempi lontani.
E’ importante chiedere aiuto perché oltrepassato un certo limite subentra la rassegnazione ed il peso diventa una corazza per proteggersi dalla paura di vivere.

Invidia o gelosia?

Spesso i concetti di invidia e gelosia sono confusi e impiegati in modo intercambiabile. Nella situazione a due possono essere usati in modo qualitativamente differente: l’invidia è l’indizio del desiderio di possedere qualcosa che qualcun altro ha; la gelosia è questa stessa cosa con in più il desiderio che l’altro non abbia ciò che in realtà possiede.
Nell’invidia una persona è infelice perché qualcun altro possiede qualcosa che la persona vorrebbe avere per se’ e si sente inferiore a causa di questa mancanza. Ciò che viene invidiato può essere una cosa, o una persona, oppure una cosa e persona insieme o ancora può essere una qualità come il successo, o la fama, o la felicità. Il punto cruciale della definizione dell’invidia è che la configurazione interpersonale deve essere di tipo bipersonale, cioè una situazione in cui una delle due persone possiede ciò che l’altra le invidia.
Nella gelosia il soggetto sperimenta apprensione, angoscia, sospettosita’ o sfiducia relativamente alla perdita di una proprietà da lui molto stimata o alla deviazione dell’affetto e dell’amore di una figura cara verso un altro, una terza persona. La rivalità con una terza persona è la componente tipica della gelosia e ne costituisce un aspetto cruciale. La scena è quella di una situazione a tre in cui il soggetto geloso teme che una terza persona possa irrompere all’interno di una relazione a due e prendere possesso dell’altro.
Sono entrambi sentimenti tenuti nella maggior parte dei casi segreti perché soggetti a vergogna da parte di chi li prova, che spesso fatica ad averne consapevolezza. Il non esprimerli fa sì che logorino sempre di più e che occupino sempre più spazio nella vita interiore, arrivando a condizionare il benessere generale e in casi estremi portano a dei gesti eclatanti, che sono apparentemente impulsivi, ma in realtà frutto di lunghi periodi di rimuginio e di covato rancore.

Hai paura del futuro?

Chi focalizza la propria attenzione sulla paura di possibili situazioni future effettua uno spostamento: la paura del futuro nasconde la paura del presente! Così come la paura di morire può essere riletta come paura di vivere. Non è un caso, infatti, che il “sintomo” della paura faccia capolino spesso in momenti di passaggio, quando si presentano delle situazioni che mettono la persona di fronte alla possibilità reale di affrontare dei cambiamenti nel presente.

 

Spostare nuovamente l’attenzione sul qui e ora è un po’ come accendere la luce in una stanza buia che si sente popolata da fantasmi: o svaniranno o appariranno per quello che sono veramente. E si sa che è più sostenibile (nonostante possa essere faticoso) lottare contro qualcuno di reale piuttosto che contro un fantasma…

 

E’ quello che avviene in terapia: i fantasmi del passato o del futuro vengono richiamati, guardati alla luce della relazione terapeutica e del presente, su cui è possibile lavorare.

Lo smart working è il presente e il futuro: i consigli dell’esperta per stare a galla

Secondo la ricerca della società di consulenza Willis Towers Watson: Benefit trend survey, ritorno al lavoro in presenza (svolta su un campione di aziende italiane e rappresentanti circa 155mila lavoratori), fino a due fa, in Italia, l’82% dei dipendenti lavorava in ufficio, il 12% in modalità ibrida, il 6% da remoto, nel 2021 siamo passati al 32% di lavoratori in ufficio, 31% in modalità ibrida e 38% da remoto. Ma cosa succederà tra due anni? Willis Towers Watson prevede che solo due dipendenti su cinque lavoreranno in azienda: nel dettaglio il 42% in presenza, il 35% in modalità ibrida e il 23% da remoto. La modalità ibrida, ovvero sia da remoto sia in presenza, tra due anni resterà comunque più diffusa, andando a coprire fino a un terzo della forza lavoro aziendale.

Lo smart working da Amazon

Una soluzione interessante è quella di Amazon che consentirà di continuare a lavorare da remoto a tempo indeterminato, purché i dipendenti possano recarsi in ufficio quando necessario e richiesto con un giorno di anticipo. I dipendenti avranno quattro settimane all’anno per poter lavorare in remoto da qualsiasi luogo all’interno del Paese di occupazione e l’obbligo nei restanti giorni di essere abbastanza vicini ai loro team per poter partecipare alle riunioni comunicate con un giorno di preavviso. Saranno i singoli team a decidere quanti e quali giorni concedere di smart working.

Smart working, questo vocabolo è ormai uno dei più usati nell’epoca Covid. Si sono dette tante cose e, come tanti fenomeni nuovi, si rischia di passare dall’idealizzazione alla svalutazione generalizzando più situazioni. Vorrei fare un commento, valutando caso per caso, a partire dall’esperienza clinica con i pazienti e dalla mia come psicoterapeuta online.

Smartworking, i consigli della psicoterapeuta
La libertà di poter essere ovunque e di poter lavorare non ha prezzo per alcuni, quindi va bene per le persone che non amano essere stanziali. Si può affittare una casa nel posto che si preferisce a seconda della stagione, essere sempre in vacanza nelle pause di lavoro e negli weekend. Attenzione agli accordi aziendali se l’azienda consente il lavoro all’estero o meno, anche se per il momento i nostri spostamenti sono ancora limitati, ma ci sono italiani all’estero che vorrebbero tornare per un periodo nel loro paese d’origine.

Addirittura si può essere assunti da aziende estere e vivere in Italia, questa è un’interessante prospettiva per chi vuole fare un’esperienza di lavoro all’estero, ma non ha delle condizioni di vita o economiche per trasferirsi.Le donne (mamme) in smart working
Le millennial donne con figli rischiano di essere fagocitate dal lavoro senza limiti e dagli impegni familiari in casa dove sono sempre presenti e sentono quindi il peso della responsabilità. Per loro l’ufficio era chiacchiera e pausa caffè, evasione dalle mura domestiche.

Quindi anche se la maggior parte di loro preferisce, almeno a parole, lo smart working anche per evitare le perdite di tempo per raggiungere il posto di lavoro, l’ambivalenza tra “sono più comoda in casa” e “visto che sono in casa, devo fare tutto come se non lavorassi” può essere alla lunga logorante. Ideali le soluzioni ibride che alternano presenza e distanza.

Il lavoro da remoto non è il lockdown
In certi tipi di persone con pensieri ossessivi e sintomi ipocondriaci si può avere un peggioramento della condizione sintomatologica per una maggiore focalizzazione sul corpo e l’assenza di distrattori sociali.

Se si trova un nuovo posto di lavoro il consiglio è di andare inizialmente in ufficio perché la percezione del clima emotivo è sicuramente più realistica dal vero, soprattutto se non c’era una conoscenza precedente.

In generale è consigliabile organizzarsi una vita attiva fuori con sport e svago con gli amici. Smart working non è lockdown quindi molto funzionali sono gli spazi di coworking. La pausa pranzo rimane un momento importante anche nello smart working, l’ideale sarebbe condividerla con qualcuno che ha gli stessi orari.

«La mia esperienza di smart working»
A proposito di me. Lavoro online da dopo il lockdown, prima lavoravo in studio a Milano vivendo a Genova, dove mi sono trasferita da Milano 15 anni fa. Lavoro con Italiani residenti all’estero e in tutte le parti d’Italia. Mi piace il modo di offrire aiuto entrando in punta di piedi nelle case altrui attraverso uno schermo. Trovo quasi più intimo questo tipo di contatto.

Senza contare che mi sembra di viaggiare per il mondo e per l’Italia avendo contatti con persone che abitano in varie località. Nei mesi estivi vado a fare il bagno e in quelli invernali una passeggiata sul lungomare. Ho sostituito il “ci vediamo per un caffè” con il “ci vediamo per una passeggiata”.

Faccio una pausa di almeno mezz’ora tra una seduta e l’altra e limito le sedute giornaliere. Stare troppo a lungo concentrata sullo schermo mi fa venire mal di testa. Cerco di vedere delle persone dal vivo durante le mie pause e il tempo libero. Sono molto contenta della mia realtà.

 

L’inarrestabile nostalgia di casa: una nuova tendenza tra gli expat italiani.

Come le rondini: Sindrome da expat da ritorno.
La Brexit, con le difficoltà che ha portato nel continuare a vivere nel Regno Unito e il covid, che ha impedito per molti mesi di tornare in vacanza nel proprio paese di origine e di ricevere delle visite da parenti e amici (e continua in molti casi a impedirlo), sono stati due fenomeni sociali che hanno contribuito ad attivare il ritorno o l’idea di ritorno degli expat nel proprio paese d’origine.
Il moto che ha spinto alla fuga si è trasformato in nostalgia e in desiderio sempre più forte di tornare. Come fare a capire se si tratta di un momento di crisi passeggero o di desiderio reale di cambiamento?
Il rischio è l’idealizzazione del ritorno a casa, mossi dalla nostalgia. Un focus fondamentale è che cosa si lascia e che cosa si trova.

Francesca, e il ritorno a Milano
Francesca 44 anni, 15 anni fuori, tra Hong Kong prima e Londra dopo.
«Dopo il covid – le parole di Francesca – avevo voglia di casa, ho avuto una figlia da giovane e adesso che è cresciuta, io e mio marito entrambi milanesi, abbiamo deciso di tornare e di farle iniziare il liceo a Milano. Dopo il primo momento di entusiasmo, ho visto tutte le fatiche della riorganizzazione in un posto nuovo, perché si tratta di un vero e proprio riambientamento e la burocrazia italiana aggiunge una notevole fatica. Anche a livello emotivo si pensa di tornare a come eravamo prima, ma le cose sono cambiate. Gli amici che erano sempre disponibili, visto che tornavamo una volta ogni tanto, hanno la loro vita, a livello di identità ero quella che viveva all’estero ed ero la expat nel paese in cui vivevo, ora chi sono?».
«I genitori – continua – sono invecchiati e le vite degli altri molto organizzate, lontane dalla mia in questo momento. La nostra casa che era il fondamentale punto di riferimento quando tornavamo mi sembra ora troppo piccola e per ora io non ho ancora trovato lavoro, per fortuna mio marito è entusiasta del suo. Non so come mi sento, lo valuterò tra un po’ e chissà, magari per l’università di nostra figlia coglieremo l’occasione per partire di nuovo. Ammesso che ci voglia ancora con lei».

Expat, i requisiti fondamentali per rientrare dall’estero
A livello emotivo può essere un sollievo tornare, ma bisogna anche fare i conti con la propria identità.
Requisiti fondamentali come per la partenza anche per il ritorno sono trovare una casa accogliente (possibilmente una diversa da quella di prima) e un nuovo lavoro che ci entusiasmi.
I rischi sono quello di voler ripartire, e l’ansia di essere in un posto definitivo, forse ci si deve fare i conti anche a seconda delle prospettive di movimento che darà l’evoluzione della pandemia.
Insomma, in ogni caso è importante tornare con un buon progetto alternativo. La mancanza della famiglia e degli amici non può bastare. Cambia comunque la prospettiva a seconda di che vita si abbandona e di che vita si trova.

Giulia, rientrata da Tokyo
Giulia 35 anni, 4 anni a Tokyo.
«Non è stata proprio una scelta quella di andare là – il racconto di Giulia – ero andata per seguire il mio compagno appena conosciuto, avevo avuto una precedente storia sentimentale alle spalle finita male e mi sono lanciata in una nuova avventura. Dopo il primo momento di entusiasmo per il posto nuovo, mi sono accorta che i ritmi lavorativi erano intensissimi – e nonostante la sicurezza economica non ero per niente abituata – e che anche io e il mio compagno eravamo molto diversi».
«Dopo poco – prosegue – sono stata investita dalla pandemia ed era difficile andare via, ma soprattutto ritornare se si partiva e quindi mi sono trascinata un po’ in questa situazione di malessere, anche se la percezione di avere uno sconosciuto in casa era sempre più evidente. Adesso sono tornata e mi sento scappata da una situazione di prigionia, non so quanto c’entri il Giappone o la relazione. Mi sembra tutto bellissimo nonostante le restrizioni che là tra l’altro erano molto meno. Devo trovare ancora un equilibrio».

Ogni caso è a sé, è importante fare la scelta che reputiamo migliore per noi, tenendo conto che può essere reversibile e seguire l’onda, la vita scorre e va avanti, solo il tempo ci farà vedere se si è rivelata giusta.

Le nuove generazioni (e non solo) hanno fame d’amore

Anoressia e non solo, parliamo di disturbi alimentari.
Quando ero bambina i disturbi alimentari erano quasi delle malattie rare. Se ne sapeva poco. Mio padre, farmacologo ed endocrinologo, aveva fatto degli studi sugli aspetti neuroendocrinologici dell’anoressia. Era stato uno dei primi. Era il 1981. Non c’erano terapie specifiche. Si andava dallo psicologo, generalmente di impostazione analitica o sistemica.

Famosa la teoria della psichiatra Palazzoli Selvini che attribuiva alla madre la colpa di tutto. Negli anni successivi si parlava sempre di più della necessità di creare centri multidisciplinari, modelli americani in cui tutto potesse funzionare, quasi con l’aspettativa magica che l’unione di più esperti potesse portare alla risoluzione sicura di un problema così complesso.
Bulimia, binge eating, ortoressia e tanti altri
Gli anni sono passati e ora ci sono diversi centri multidisciplinari. Non voglio scrivere di quanto e come funzionino i centri, né dei disturbi alimentari che nel frattempo sono diventati più numerosi, bulimia, binge eating, ortoressia e tanti altri, ma delle persone che ci sono dietro.
I pazienti che vedo spesso vengono dopo vari tentativi di cura, non solo da parte di psicologi di ogni genere e tipo, ma anche da psichiatri, internisti, nutrizionisti, manuali fai da te, terapie comportamentali, terapie analitiche, psicoterapie che non si sa cosa facessero. Quasi tutti sognano la bacchetta magica che li liberi dallo stimolo della fame.
Sempre di più arrivano pazienti con disturbi cronicizzati, lunghe terapie in cui non è stata neanche nominata la parola vomito oppure percorsi in cui si parla solo del cibo come fosse qualcosa di distaccato dalla persona. Arrivano con diagnosi preconfezionate, incartate con il cellophane, a cui è difficile avvicinarsi empatizzando, con la fatica del raccontarsi sempre a un terzo, come se non si sapesse chi si è, ma solo come ci hanno descritti.
È una fame d’amore
Si cercano dei modelli nel tentativo di semplificare, di avere un linguaggio condiviso, ma è un paradosso perché si tratta di personalità estremamente complesse. Sempre più si cercano ricette per curare i disturbi, ma la fame o “non” fame è una fame d’amore.
Solo riparando quella ferita si può guarire. Perché se ti insegnano a mangiare tutto quello che hai nel vassoio, ma dentro il dolore lentamente ti frantuma, quel sintomo si trasformerà in un altro dolore e poi magari ne dovrai mangiare quattro di quei vassoi per non sentirlo più.
Cos’è il disturbo alimentare?
Spesso vittime di, abusi, traumi che non necessariamente sono violenze manifeste, ma possono essere anni di maltrattamenti familiari consistenti nel calpestare ripetutamente la sensibilità molto spiccata dei soggetti in questione. Il disturbo alimentare è la esplicitazione di una vita di sofferenza del non essersi sentiti amati, del non darsi un valore, del sentirsi inferiori nella propria differenza.
È la relazione terapeutica con i suoi contenuti che aiuta a passare oltre. Un rapporto umano, non una tecnica precostituita. Una persona che ti restituisca la fiducia di cui avresti avuto bisogno nei primi anni di vita, quella fiducia che ci permette di sentirci e di esistere.

Anche il Grinch a Natale va in seduta

Natale è da sempre tempo di bilanci famigliari, difficile per chi non ha o non sente degli affetti sicuri.
Dal lockdown l’impossibilità di vedere i genitori e i parenti ha fatto trovare in alcuni delle modalità migliori per vederli ogni tanto, in maniera più autentica e più affettuosa. L’obbligo di visita ai famigliari è ciò che di meno spontaneo può esserci nelle relazioni affettive, a partire dai figli dei genitori separati e anche il festeggiamento dovrebbe corrispondere a un reale desiderio di farlo.

Certo, è giusto avere anche delle convenzioni sociali, delle regole di comportamento nelle relazioni, ma non sarebbe altrettanto consono rinegoziare ogni anno il proprio modo di festeggiare il Natale? L’amore per il Natale dipende anche da che bambini si è stati e dai ricordi famigliari. Riporto a questo proposito uno stralcio di una seduta prenatalizia.

 

Il Grinch che odia il Natale
«I miei ricordi del giorno di Natale sono dei grandi litigi tra i miei genitori ai quali io assistevo avvilita, in silenzio. Non sopportavano i reciproci parenti e, anche se si era già deciso da chi andare, il conflitto andava avanti per giorni. Diciamo che non era nuova quell’atmosfera in casa, anche nel restante periodo dell’anno. Mio padre scoppiava di rabbia spesso per motivi futili, forse per i suoi traumi familiari, come avrei scoperto nella mia precedente analisi, ma a 7 anni non lo potevo sapere, avevo paura e basta».

«Mia madre, probabilmente per il suo passato di povertà, iniziava a infiocchettare la casa a fine novembre, comprava ogni anno delle nuove decorazioni e c’erano pacchetti e pacchettini per tutti, preparati accuratamente con fiocchi e carte di ogni colore, troppi. Io, a parte un anno la bicicletta a cui tenevo, non amavo particolarmente ricevere regali, quasi mi infastidivano, era inscatolare e nascondere in un bel pacchetto quell’inferno di urla e di silenzio di quella casa».

…Odiare il Natale a New York

«E adesso mi definisco, ridendo, il “Grinch”, letteralmente Odio il Natale. Quando inizio a vedere tutte le decorazioni e qui a New York è un delirio da questo punto di vista, mi viene il mal umore e il culmine lo raggiungo quando sono costretta a fare l’albero, visto che Alex, il figlio del mio compagno, viene sempre qualche giorno a Natale da noi. Appena finisco di decorarlo il mio umore crolla a picco, non vedo l’ora di disfarlo e vorrei che una teleferica mi traghettasse direttamente al 7 gennaio, perché anche la Befana non la sopporto, se mi capita di essere in Italia».

«Comunque ogni luogo con decorazioni natalizie è per me insopportabile, rimpiango gli anni di singletudine quando andavo a fare il Natale al caldo, anche se stavo male lo stesso perché mi sentivo sola come un cane… Ma la cosa in assoluto più difficile per me è fare Natale per un bambino, fare i regali, fare finta di essere contenta. Forse è per questo che non ho avuto figli, sì sarà stato anche il caso, ma l’idea che qualcuno potesse passare quello che ho passato io mi sembrava inaccettabile. E così anche quest’anno farò buon viso a cattivo gioco, almeno fino a quando Alex non sarà adolescente, non manca molto e allora spero che non crederà più in questo dannato Babbo Natale…».