Autore: Irene Muller
Invidia o gelosia?
Hai paura del futuro?
Chi focalizza la propria attenzione sulla paura di possibili situazioni future effettua uno spostamento: la paura del futuro nasconde la paura del presente! Così come la paura di morire può essere riletta come paura di vivere. Non è un caso, infatti, che il “sintomo” della paura faccia capolino spesso in momenti di passaggio, quando si presentano delle situazioni che mettono la persona di fronte alla possibilità reale di affrontare dei cambiamenti nel presente.
Spostare nuovamente l’attenzione sul qui e ora è un po’ come accendere la luce in una stanza buia che si sente popolata da fantasmi: o svaniranno o appariranno per quello che sono veramente. E si sa che è più sostenibile (nonostante possa essere faticoso) lottare contro qualcuno di reale piuttosto che contro un fantasma…
E’ quello che avviene in terapia: i fantasmi del passato o del futuro vengono richiamati, guardati alla luce della relazione terapeutica e del presente, su cui è possibile lavorare.
Lo smart working è il presente e il futuro: i consigli dell’esperta per stare a galla
Secondo la ricerca della società di consulenza Willis Towers Watson: Benefit trend survey, ritorno al lavoro in presenza (svolta su un campione di aziende italiane e rappresentanti circa 155mila lavoratori), fino a due fa, in Italia, l’82% dei dipendenti lavorava in ufficio, il 12% in modalità ibrida, il 6% da remoto, nel 2021 siamo passati al 32% di lavoratori in ufficio, 31% in modalità ibrida e 38% da remoto. Ma cosa succederà tra due anni? Willis Towers Watson prevede che solo due dipendenti su cinque lavoreranno in azienda: nel dettaglio il 42% in presenza, il 35% in modalità ibrida e il 23% da remoto. La modalità ibrida, ovvero sia da remoto sia in presenza, tra due anni resterà comunque più diffusa, andando a coprire fino a un terzo della forza lavoro aziendale.
Lo smart working da Amazon
Una soluzione interessante è quella di Amazon che consentirà di continuare a lavorare da remoto a tempo indeterminato, purché i dipendenti possano recarsi in ufficio quando necessario e richiesto con un giorno di anticipo. I dipendenti avranno quattro settimane all’anno per poter lavorare in remoto da qualsiasi luogo all’interno del Paese di occupazione e l’obbligo nei restanti giorni di essere abbastanza vicini ai loro team per poter partecipare alle riunioni comunicate con un giorno di preavviso. Saranno i singoli team a decidere quanti e quali giorni concedere di smart working.
Smart working, questo vocabolo è ormai uno dei più usati nell’epoca Covid. Si sono dette tante cose e, come tanti fenomeni nuovi, si rischia di passare dall’idealizzazione alla svalutazione generalizzando più situazioni. Vorrei fare un commento, valutando caso per caso, a partire dall’esperienza clinica con i pazienti e dalla mia come psicoterapeuta online.
Smartworking, i consigli della psicoterapeuta
La libertà di poter essere ovunque e di poter lavorare non ha prezzo per alcuni, quindi va bene per le persone che non amano essere stanziali. Si può affittare una casa nel posto che si preferisce a seconda della stagione, essere sempre in vacanza nelle pause di lavoro e negli weekend. Attenzione agli accordi aziendali se l’azienda consente il lavoro all’estero o meno, anche se per il momento i nostri spostamenti sono ancora limitati, ma ci sono italiani all’estero che vorrebbero tornare per un periodo nel loro paese d’origine.
Addirittura si può essere assunti da aziende estere e vivere in Italia, questa è un’interessante prospettiva per chi vuole fare un’esperienza di lavoro all’estero, ma non ha delle condizioni di vita o economiche per trasferirsi.Le donne (mamme) in smart working
Le millennial donne con figli rischiano di essere fagocitate dal lavoro senza limiti e dagli impegni familiari in casa dove sono sempre presenti e sentono quindi il peso della responsabilità. Per loro l’ufficio era chiacchiera e pausa caffè, evasione dalle mura domestiche.
Quindi anche se la maggior parte di loro preferisce, almeno a parole, lo smart working anche per evitare le perdite di tempo per raggiungere il posto di lavoro, l’ambivalenza tra “sono più comoda in casa” e “visto che sono in casa, devo fare tutto come se non lavorassi” può essere alla lunga logorante. Ideali le soluzioni ibride che alternano presenza e distanza.
Il lavoro da remoto non è il lockdown
In certi tipi di persone con pensieri ossessivi e sintomi ipocondriaci si può avere un peggioramento della condizione sintomatologica per una maggiore focalizzazione sul corpo e l’assenza di distrattori sociali.
Se si trova un nuovo posto di lavoro il consiglio è di andare inizialmente in ufficio perché la percezione del clima emotivo è sicuramente più realistica dal vero, soprattutto se non c’era una conoscenza precedente.
In generale è consigliabile organizzarsi una vita attiva fuori con sport e svago con gli amici. Smart working non è lockdown quindi molto funzionali sono gli spazi di coworking. La pausa pranzo rimane un momento importante anche nello smart working, l’ideale sarebbe condividerla con qualcuno che ha gli stessi orari.
«La mia esperienza di smart working»
A proposito di me. Lavoro online da dopo il lockdown, prima lavoravo in studio a Milano vivendo a Genova, dove mi sono trasferita da Milano 15 anni fa. Lavoro con Italiani residenti all’estero e in tutte le parti d’Italia. Mi piace il modo di offrire aiuto entrando in punta di piedi nelle case altrui attraverso uno schermo. Trovo quasi più intimo questo tipo di contatto.
Senza contare che mi sembra di viaggiare per il mondo e per l’Italia avendo contatti con persone che abitano in varie località. Nei mesi estivi vado a fare il bagno e in quelli invernali una passeggiata sul lungomare. Ho sostituito il “ci vediamo per un caffè” con il “ci vediamo per una passeggiata”.
Faccio una pausa di almeno mezz’ora tra una seduta e l’altra e limito le sedute giornaliere. Stare troppo a lungo concentrata sullo schermo mi fa venire mal di testa. Cerco di vedere delle persone dal vivo durante le mie pause e il tempo libero. Sono molto contenta della mia realtà.
L’inarrestabile nostalgia di casa: una nuova tendenza tra gli expat italiani.
Come le rondini: Sindrome da expat da ritorno.
La Brexit, con le difficoltà che ha portato nel continuare a vivere nel Regno Unito e il covid, che ha impedito per molti mesi di tornare in vacanza nel proprio paese di origine e di ricevere delle visite da parenti e amici (e continua in molti casi a impedirlo), sono stati due fenomeni sociali che hanno contribuito ad attivare il ritorno o l’idea di ritorno degli expat nel proprio paese d’origine.
Il moto che ha spinto alla fuga si è trasformato in nostalgia e in desiderio sempre più forte di tornare. Come fare a capire se si tratta di un momento di crisi passeggero o di desiderio reale di cambiamento?
Il rischio è l’idealizzazione del ritorno a casa, mossi dalla nostalgia. Un focus fondamentale è che cosa si lascia e che cosa si trova.
Francesca, e il ritorno a Milano
Francesca 44 anni, 15 anni fuori, tra Hong Kong prima e Londra dopo.
«Dopo il covid – le parole di Francesca – avevo voglia di casa, ho avuto una figlia da giovane e adesso che è cresciuta, io e mio marito entrambi milanesi, abbiamo deciso di tornare e di farle iniziare il liceo a Milano. Dopo il primo momento di entusiasmo, ho visto tutte le fatiche della riorganizzazione in un posto nuovo, perché si tratta di un vero e proprio riambientamento e la burocrazia italiana aggiunge una notevole fatica. Anche a livello emotivo si pensa di tornare a come eravamo prima, ma le cose sono cambiate. Gli amici che erano sempre disponibili, visto che tornavamo una volta ogni tanto, hanno la loro vita, a livello di identità ero quella che viveva all’estero ed ero la expat nel paese in cui vivevo, ora chi sono?».
«I genitori – continua – sono invecchiati e le vite degli altri molto organizzate, lontane dalla mia in questo momento. La nostra casa che era il fondamentale punto di riferimento quando tornavamo mi sembra ora troppo piccola e per ora io non ho ancora trovato lavoro, per fortuna mio marito è entusiasta del suo. Non so come mi sento, lo valuterò tra un po’ e chissà, magari per l’università di nostra figlia coglieremo l’occasione per partire di nuovo. Ammesso che ci voglia ancora con lei».
Expat, i requisiti fondamentali per rientrare dall’estero
A livello emotivo può essere un sollievo tornare, ma bisogna anche fare i conti con la propria identità.
Requisiti fondamentali come per la partenza anche per il ritorno sono trovare una casa accogliente (possibilmente una diversa da quella di prima) e un nuovo lavoro che ci entusiasmi.
I rischi sono quello di voler ripartire, e l’ansia di essere in un posto definitivo, forse ci si deve fare i conti anche a seconda delle prospettive di movimento che darà l’evoluzione della pandemia.
Insomma, in ogni caso è importante tornare con un buon progetto alternativo. La mancanza della famiglia e degli amici non può bastare. Cambia comunque la prospettiva a seconda di che vita si abbandona e di che vita si trova.
Giulia, rientrata da Tokyo
Giulia 35 anni, 4 anni a Tokyo.
«Non è stata proprio una scelta quella di andare là – il racconto di Giulia – ero andata per seguire il mio compagno appena conosciuto, avevo avuto una precedente storia sentimentale alle spalle finita male e mi sono lanciata in una nuova avventura. Dopo il primo momento di entusiasmo per il posto nuovo, mi sono accorta che i ritmi lavorativi erano intensissimi – e nonostante la sicurezza economica non ero per niente abituata – e che anche io e il mio compagno eravamo molto diversi».
«Dopo poco – prosegue – sono stata investita dalla pandemia ed era difficile andare via, ma soprattutto ritornare se si partiva e quindi mi sono trascinata un po’ in questa situazione di malessere, anche se la percezione di avere uno sconosciuto in casa era sempre più evidente. Adesso sono tornata e mi sento scappata da una situazione di prigionia, non so quanto c’entri il Giappone o la relazione. Mi sembra tutto bellissimo nonostante le restrizioni che là tra l’altro erano molto meno. Devo trovare ancora un equilibrio».
Ogni caso è a sé, è importante fare la scelta che reputiamo migliore per noi, tenendo conto che può essere reversibile e seguire l’onda, la vita scorre e va avanti, solo il tempo ci farà vedere se si è rivelata giusta.
Le nuove generazioni (e non solo) hanno fame d’amore
Anoressia e non solo, parliamo di disturbi alimentari.
Quando ero bambina i disturbi alimentari erano quasi delle malattie rare. Se ne sapeva poco. Mio padre, farmacologo ed endocrinologo, aveva fatto degli studi sugli aspetti neuroendocrinologici dell’anoressia. Era stato uno dei primi. Era il 1981. Non c’erano terapie specifiche. Si andava dallo psicologo, generalmente di impostazione analitica o sistemica.
Anche il Grinch a Natale va in seduta
Natale è da sempre tempo di bilanci famigliari, difficile per chi non ha o non sente degli affetti sicuri.
Dal lockdown l’impossibilità di vedere i genitori e i parenti ha fatto trovare in alcuni delle modalità migliori per vederli ogni tanto, in maniera più autentica e più affettuosa. L’obbligo di visita ai famigliari è ciò che di meno spontaneo può esserci nelle relazioni affettive, a partire dai figli dei genitori separati e anche il festeggiamento dovrebbe corrispondere a un reale desiderio di farlo.
Certo, è giusto avere anche delle convenzioni sociali, delle regole di comportamento nelle relazioni, ma non sarebbe altrettanto consono rinegoziare ogni anno il proprio modo di festeggiare il Natale? L’amore per il Natale dipende anche da che bambini si è stati e dai ricordi famigliari. Riporto a questo proposito uno stralcio di una seduta prenatalizia.
Il Grinch che odia il Natale
«I miei ricordi del giorno di Natale sono dei grandi litigi tra i miei genitori ai quali io assistevo avvilita, in silenzio. Non sopportavano i reciproci parenti e, anche se si era già deciso da chi andare, il conflitto andava avanti per giorni. Diciamo che non era nuova quell’atmosfera in casa, anche nel restante periodo dell’anno. Mio padre scoppiava di rabbia spesso per motivi futili, forse per i suoi traumi familiari, come avrei scoperto nella mia precedente analisi, ma a 7 anni non lo potevo sapere, avevo paura e basta».
«Mia madre, probabilmente per il suo passato di povertà, iniziava a infiocchettare la casa a fine novembre, comprava ogni anno delle nuove decorazioni e c’erano pacchetti e pacchettini per tutti, preparati accuratamente con fiocchi e carte di ogni colore, troppi. Io, a parte un anno la bicicletta a cui tenevo, non amavo particolarmente ricevere regali, quasi mi infastidivano, era inscatolare e nascondere in un bel pacchetto quell’inferno di urla e di silenzio di quella casa».
…Odiare il Natale a New York
«E adesso mi definisco, ridendo, il “Grinch”, letteralmente Odio il Natale. Quando inizio a vedere tutte le decorazioni e qui a New York è un delirio da questo punto di vista, mi viene il mal umore e il culmine lo raggiungo quando sono costretta a fare l’albero, visto che Alex, il figlio del mio compagno, viene sempre qualche giorno a Natale da noi. Appena finisco di decorarlo il mio umore crolla a picco, non vedo l’ora di disfarlo e vorrei che una teleferica mi traghettasse direttamente al 7 gennaio, perché anche la Befana non la sopporto, se mi capita di essere in Italia».
«Comunque ogni luogo con decorazioni natalizie è per me insopportabile, rimpiango gli anni di singletudine quando andavo a fare il Natale al caldo, anche se stavo male lo stesso perché mi sentivo sola come un cane… Ma la cosa in assoluto più difficile per me è fare Natale per un bambino, fare i regali, fare finta di essere contenta. Forse è per questo che non ho avuto figli, sì sarà stato anche il caso, ma l’idea che qualcuno potesse passare quello che ho passato io mi sembrava inaccettabile. E così anche quest’anno farò buon viso a cattivo gioco, almeno fino a quando Alex non sarà adolescente, non manca molto e allora spero che non crederà più in questo dannato Babbo Natale…».